LA RIFORMA DEL SISTEMA FISCALE NON E’ SOLO POSSIBILE MA RAPPRESENTA UNA NECESSITA’

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Il nostro Paese necessita di una riforma fiscale profonda. Le aspettative sulle iniziative legislative e di governo in tal senso vengono sistematicamente deluse. Quando si discute sui temi soliti che c’è sempre meno voglia di fare impresa, che quei pochi con voglia di fare impresa fuggono per lo più all’estero, delocalizzando, che il ceto medio va sempre più assottigliandosi, che le politiche sull’immigrazione finiscono per sfavorire i nostri lavoratori, che si accentuano sempre più le differenze tra coloro che hanno meno e coloro che accumulano, rischiamo di fare constatazioni pur vere ma che si riducono inevitabilmente a triti, noiosi e ripetitivi luoghi comuni, senza poi far nulla di concreto per cambiare le cose. Evidentemente la riforma del fisco rappresenta un elemento decisivo al fine di favorire un’inversione di tendenza a fronte di quanto sopra evidenziato. Infatti, oggi il nostro sistema fiscale è un vero e proprio acceleratore di tali processi socio-economici, molto negativi. Poniamo il caso che il cittadino abbia dei capitali disponibili: perché mai dovrebbe impiegarli per fare impresa, piuttosto che investirli nella finanza o nell’immobiliare, laddove nel primo caso va incontro a pressioni enormi e rischi evitabili mentre
nel secondo caso otterrà rendimenti che beneficiano di regimi fiscali di indubbio favore rispetto alla tassazione ed ai costi che gravano sui redditi di impresa? E come scongiurare la delocalizzazione all’estero alla presenza di imposte come l’Irap? Inoltre è fuori dal mondo lamentarsi della sparizione del cd. ceto medio laddove esiste una discriminazione palese sul regime di tassazione dei redditi, tutta all’incontrario, visto che risultano meno tartassati i redditi di derivazione patrimoniale ed oltremodo compressi, invece, e più che tartassati i redditi che derivano dal lavoro dipendente, autonomo o organizzato in forma di piccola o micro impresa. La legge delega che contiene le linee guida in materia come noto è stata varata alla presenza di una incombente crisi di Governo ed alla fine dei giochi è risultata assai poco ambiziosa al cospetto delle impellenti necessità non più rinviabili, ma soprattutto, troppo generica nei punti decisivi del futuro impianto normativo. Va detto in primo luogo che quest’ultimo resterà comunque sulla carta se, entro 18 mesi dalla entrata in vigore della legge delega, non saranno emanati i decreti attuativi, rimanendo come una sorta di contenitore vuoto. Si è intervenuti sul modello di fiscalità dettando
le linee guida per la modifica dell’Irpef, dell’Ires, e prevedendo, inoltre, un graduale superamento dell’Irap. E’ stata prefigurata con alcuni paletti una revisione ed una razionalizzazione dell’Iva. Si è cercato di ridefinire il catasto e di riscrivere la modalità per il corretto classamento degli immobili.
Sono state riviste le modalità di riscossione e di esazione anche coattiva delle imposte erariali e non, con intervento deciso anche in materia di imposte locali. Guardando al complesso del progetto si può affermare che dopo le roboanti dichiarazioni di prammatica, la riforma varata (per delega) si sia rivelata piuttosto limitata, approssimativa ed incoerente nel tentativo di dare ascolto a ‘campane’ troppo diverse tra loro. Si rischia così che cambi ben poco di concreto apportando solo aggiustamenti e correttivi, venendo meno all’aspettativa di una revisione profonda tale da consentire di ottenere un sistema più giusto e avanzato. Un’occasione persa insomma. Il testo originario proposto dal Governo, per quanto carente di molti criteri direttivi, prevedeva alcuni principi ragionevoli per guidare una riforma coraggiosa, incisiva, coerente ed organica. Ma dopo gli
ultimi passaggi la coerenza sembra essere venuta meno, lasciando un testo fatto di pochi interventi, per lo più di rilievo marginale, e di fatto confermando in prospettiva uno status quo che tutti, a parole, riconoscono come complesso, iniquo e inefficiente. Non sembra che l’Italia possa permettersi un giro aa vuoto o meglio sarebbe dire un passo falso del genere. (FONTE:LAVOCE.INFO)

Tabella 1 – Analisi delle dichiarazioni dei reidditi ai fini IRPEF 2019 per classi di reddito complessive

Fonte: elaborazioni Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati MEF

Le dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF 

Sulla base dei dati MEF, elaborati dal Centro Studi Itinerari Previdenziali, analizziamo i redditi relativi al 2018 (ultimo anno disponibile), dichiarati nel 2019: ne esce la fotografia di un Paese diverso e meno oppresso da quello narrato dalla politica e dai media. Intanto, su 60,36 milioni di residenti in Italia a fine 2018 i contribuenti dichiaranti sono 41.372.851 ma i versanti – cioè quelli che pagano almeno 1 euro di IRPEF – sono 31.155.444 (oltre 400mila in meno rispetto al 2011). Quindi, quasi la metà degli italiani (29,204 milioni pari al 48,38%) non ha redditi e vive a carico di qualcuno: una percentuale atipica per un Paese del G7, dove per il solo gioco d’azzardo gli italiani attingono ogni anno a 127 miliardi ogni anno, di cui 110 regolari secondo l’Agenzia delle dogane e dei monopoli e almeno 20 irregolari, “investiti” in circa 210mila locali tra ricevitorie, sale da gioco, bingo, scommesse, slot, e così via. Insomma, più soldi e più locali dell’intero Servizio Sanitario Nazionale.

Come si evince poi dalla tabella, i contribuenti delle prime due fasce di reddito (da zero o negativi fino a 7.500 e da 7.500 euro a 15mila di reddito lordo annuo) sono 18.156.997, pari al 43,88% del totale contribuenti, e versano il 2,42% di tutta l’IRPEF, pari a 4,15 miliardi di euro (meno di 32 euro a testa, 22 considerando i cittadini) e, di conseguenza, si suppone, anche pochissimi contributi sociali. Ragione per la quale, con molte probabilità, saranno dei futuri anziani assistiti dalla collettività. I dichiaranti tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito lordo sono 5,724 milioni, versano il 6,56% dell’IRPEF totale, pari a 11,255 miliardi, e un’imposta media di 1.966 euro, che si riduce a 1.348 euro per cittadino: un importo, dunque, ancora insufficiente a coprire per intero anche il solo costo pro capite della spesa sanitaria (1.886,51 euro). Questi primi 3 scaglioni di reddito, che rappresentano circa il 60% della popolazione versano 15 miliardi di IRPEF (l’8,98% del totale) e sono quindi a quasi totale carico di altri cittadini: non possono certamente dirsi oppressi dalle tasse! 

FABBRIZIO SALVATORE – PROGETTO TASSE 2023 – 2030
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